Dioniso. Il Dio Esiliato
Dioniso è uno degli dei più misteriosi, affascinanti e inquietanti dell'antichità. Dio dell'ebbrezza e dell'esaltazione orgiastica, appare come una figura quasi estranea al mondo greco. Le sue origini restano avvolte nell'ombra. Alcuni studiosi sostengono siano orientali: sono stati rilevati infatti elementi comuni nel culto greco di Dioniso e in culti della Tracia. Dioniso rappresenta l'essenza assoluta del creato nel suo perenne e selvaggio fluire. Come ha scritto il filologo Walter Otto, Dioniso è «lo spirito divino di una realtà smisurata», l'elemento primigenio del cosmo, l'irruzione spirituale della zoé greca, ossia l'esistenza intesa in senso assoluto, il frenetico flusso di vita che tutto pervade.
Dioniso è soprannominato lysios, «colui che scioglie» l'uomo dai vincoli dell'identità personale per
ricongiungerlo all'originarietà universale. Dioniso, dunque, è pulsione vitale dirompente, immane, sconvolgente, in un eterno deflagrare di forze opposte: vita e morte, presente e futuro, acqua
e fuoco, delirio, follia, verità, impetuosità, immensità, furore, estasi, fecondità, catarsi, fragore e silenzio, gioia e terrore, creazione e distruzione. È colui che abbatte qualsiasi
ordinamento, disciplina e convenzione artificiosamente eretti dall'uomo. Walter Otto, peraltro, era tenace sostenitore dell'origine divina della parola e della musica, manifestazioni del
convulso armonioso scorrere dell'esistente e rappresentate nel mondo greco dalle Muse. Scrive Nietzsche ne La Nascita della Tragedia:
Nel ditirambo dionisiaco l'uomo viene stimolato al massimo potenziamento di tutte le
sue facoltà simboliche; qualcosa di mai sentito preme per manifestarsi, l'annientamento del velo di Maya, l'unificazione come genio della specie, anzi della natura. Ora l'essenza della natura
deve esprimersi simbolicamente; è necessario un nuovo mondo di simboli, e anzitutto l'intero simbolismo del corpo, non solo il simbolismo della bocca, del volto, della parola, ma anche la
totale mimica della danza, che muove ritmicamente tutte le membra.
Il nome di Dioniso è rimasto legato nella cultura occidentale alle manifestazioni della vita e della sacralità che
attingono alla verità attraverso il "furore" estatico su cui si fonda la dialettica apollineo-dionisiaca elaborata da Nietzsche, convinto dell'origine orientale del dio. Afferma il filosofo ne
La Visione Dionisiaca del Mondo:
In origine soltanto Apollo è il dio ellenico dell'arte, e fu la sua potenza ad
ammansire Dioniso, che veniva all'assalto dall'Asia, a tal punto che fra di loro potè sorgere la più bella fratellanza. Qui si comprende facilmente l'incredibile idealismo della natura ellenica:
un culto naturale, che presso gli Asiatici significava lo scatenamento più rozzo dei bassi istinti, una vita pansessuale animalesca, che per un certo tempo fa saltare tutti i vincoli sociali,
diventò presso di loro una festa di redenzione del mondo, un giorno di trasfigurazione. Tutti gli impulsi sublimi della loro natura si rivelavano in questa idealizzazione
dell'orgia.
A tal proposito giova ricordare che il vocabolo plurale tà òrgia nell'antica Grecia apparteneva alla sfera
sacrale e veniva utilizzato per qualunque cerimonia religiosa, senza necessariamente l'implicazione di rituali stravaganti. In seguito passò ad indicare riti e culti misterici connessi con le
celebrazioni in onore di Dioniso, caratterizzati da estasi e frenesia e accompagnati da danze musica e bevute: fu con ogni probabilità quest'ultima accezione che conferì una sfumatura
peggiorativa al termine, che comunque è essenzialmente moderna. Nietzsche spiega che la potenza dionisiaca, che induce in uno stato di estasi ed ebbrezza, infrange il cosiddetto "principio di
individuazione", ossia il rivestimento soggettivo di ciascun individuo. Le feste di Dioniso uniscono uomo a uomo e riconciliano questi con la natura: la terra offre spontaneamente i suoi doni,
gli animali feroci si avvicinano pacificamente, il carro di Dioniso adornato di fiori è tirato da tigri e pantere. Scompaiono tutte le divisioni di casta stabilite arbitrariamente dall'uomo: lo
schiavo, il povero e il nobile si uniscono negli stessi cori bacchici predicando un vangelo di armonia universale.
Nell'ebbrezza dionisiaca, nell'impetuoso trascorrere di tutte le tonalità dell'anima
nell'eccitazione narcotica o nello scatenamento degli impulsi primaverili, la natura si manifesta in tutta la sua forza: essa stringe di nuovo insieme i singoli esseri e li fa sentire unificati,
in modo che il "principio di individuazione" appare quasi come uno stato durevole di debolezza della volontà. [...] ognuno si sente non solo riunito, riconciliato, fuso col suo prossimo, ma
addirittura uno con esso, come se il velo di Maya fosse stato strappato e sventolasse ormai in brandelli davanti alla misteriosa unità originaria. Cantando e danzando, l'uomo si manifesta come
membro di una comunità superiore: ha disimparato a camminare e a parlare ed è sul punto di volarsene in cielo danzando. Dai suoi gesti parla l'incantesimo. Come ora gli animali parlano, e la
terra da latte e miele, così anche risuona in lui qualcosa di sovrannaturale: egli sente se stesso come dio, egli si aggira ora in estasi ora in alto, così come in sogno vide aggirarsi gli dei.
L'uomo non è più artista, è divenuto opera d'arte: si rivela qui fra i brividi dell'ebbrezza il potere artistico dell'intera natura, con il massimo appagamento estatico dell'unità
originaria.
Nietzsche spiega che nelle Baccanti di Euripide - unica tragedia a noi pervenuta su Dioniso e unica tragedia il
cui protagonista è un dio - viene descritto l'improvviso prorompere di una festa dionisiaca in cui le baccanti esultano in un'armonia selvaggia con la natura, e tuttavia piena di «leggiadria» e
di «ebbrezza di trasfigurazione musicale». Un messaggero - scrive Nietzsche - racconta di essere salito con le greggi, nella calura meridiana, sulle cime dei monti e di aver visto tre cori di
donne giacenti qua e là sul prato in atteggiamenti pudichi; molte sono appoggiate a tronchi di abeti: tutte sonnecchiano. Improvvisamente la madre di Penteo comincia ad esultare, il sonno è
scacciato, donne e ragazze saltano su, sciolgono i capelli che ricadono sulle spalle e si cingono di pelli screziate e di serpenti che sfiorano delicatamente le loro guance, alcune di esse
prendono in braccio lupacchiotti e giovani caprioli e li allattano, tutte si adornano con corone d'edera e fiori di convolvoli, danno un colpo di tirso sulle rocce e ne sgorga acqua e vino,
dolce miele gocciola dai rami, alcune toccano la terra con la punta delle dita e ne zampilla latte bianco come la neve. E tutto un mondo incantato, «la natura celebra la sua festa di
riconciliazione col proprio figlio perduto, l'uomo».
Le menadi, in preda a frenesia estatica e invasate da Dioniso, celebravano il dio cantando, danzando e vagando come animali per monti e foreste in uno sciamare esaltato fin quasi al volo. Energie psicosomatiche venivano tratte dal profondo e sprigionate in una celebrazione della vita, che è espressione di una realtà divina sconfinata e irriducibile con cui in tal modo si tornava in sintonia. Plutarco riferisce che, intorno alla metà del III secolo a.C., alcune tiadi (così si chiamavano le donne dionisiache a Delfì) si smarrirono in trance durante la danza notturna e giunsero alla città di Anfissa; lì si accasciarono esauste sulla piazza del mercato, addormentandosi, e vennero soccorse dalle donne del posto. Le menadi avevano uno spirito imbevuto di profezia e accoglievano solo chi si avvicinasse loro con rispetto, accomunato dal culto di Dioniso, mentre scacciavano gli uomini che si avvicinassero con curiosità, allo scopo di spiare e violare il tiaso. 11 loro stato di sfrenata libertà le rendeva capaci di donare sacralità e vita, ma anche di toglierla e di arrecare distruzione. Le menadi sbranavano ciò che prima amorevolmente allattavano, poiché la vita contiene in sé la morte, e la morte contiene sempre in sé la vita in una danza di armonia perenne e misteriosa: ciò si manifestava in Dioniso come un unico e fluente abbraccio degli opposti, ed allo stesso modo fluiva nell'anima delle sue seguaci.
Secondo il poeta Oppiano, Dioniso fin da bambino provava gioia nello sbranare giovani caprioli e poi ridar loro la vita. Nelle Baccanti Euripide descrive con estremo realismo e crudezza la furia selvaggia e devastante di Dioniso, tanto che la scena dello smembramento di Penteo ad opera delle baccanti non è mai comparsa in nessuna raffigurazione visiva. Nessun artista o regista teatrale ha mai voluto rappresentare Penteo mascherato da menade, o penzolante da un albero, o schiantato al suolo assieme ad esso; nessuno ha mai voluto mostrare la madre Agave che reca la testa del figlio sulla punta del tirso; neanche una volta, neanche dopo che il dramma di Euripide era divenuto celebre. Dioniso incarna tutto ciò che vi è di istintivo, sensuale, caotico e irrazionale nella vita. Nietzsche affermò che la vita stessa, come principio che anima i viventi, è istinto, sensualità, caos e irrazionalità e per questo non potè che vedere in Dioniso la perfetta metafora dell'esistenza. Ciò che infonde vita nelle arterie del mondo è infatti una fonte primeva e misteriosa che fluttua caotica nel corpo e nello spirito, è la tempesta primigenia del cosmo in eterno mutamento. Hegel, nella prefazione alla Fenomenologia dello Spirito, raffigurò in un'immagine dionisiaca la conoscenza del Vero, quando la paragonò al «vacillare della baccante, in cui non v'è membro che non sia ebbro». Le parvenze di Dioniso incarnano lo spirito di tutto ciò che vive: egli è il dio della vegetazione, la cui cieca rigogliosità si spinge ovunque, è "dio della fertilità, il principio per cui ciò che pulsa di vita genera altra vita; ma non solo, Dioniso è il dio dell'uva e del vino, e quindi è il nume tutelare dell'ebbrezza e della perdita della ragione.
Dioniso sgretolava le inibizioni, riconduceva gli uomini al loro stato di purezza primordiale, li faceva danzare,
cantare, strillare, eccitare, precipitare nell'esaltazione pa-rossistica e violenta che portava all'estasi e al delirio. Dio ubriaco, si faceva beffe di ogni ordinamento e convenzione,
sconvolgeva le coscienze, travolgeva l'aspetto del mondo abituale frantumando confini, limiti, barriere, strutture logiche sociali e morali. Dioniso era l'unico dio che concedeva alle donne e
agli schiavi di partecipare ai suoi riti, i quali prevedevano, al culmine dell'estasi e delle danze sfrenate e liberatorie, la caccia a mani nude di un animale selvatico, sbranato e ingoiato a
brandelli ancora caldo e grondante di sangue. Nella tarda antichità il suo culto assurse a religione cosmica e si espanse capillarmente in maniera del tutto spontanea: solo le vicende storiche
posero fine alla sua influenza. In età moderna Dioniso (paragonato da alcuni all'antico Shiva, il dio indù
danzante) è divenuto l'emblema delle forze naturali, vitalistiche e irrazionali ed ha accompagnato la rivoluzione culturale degli Anni Sessanta, in Europa come in America. Il dio della pace,
dell'amore, dell'ebbrezza, dei viaggi on thè road e del ritorno alla natura traspariva negli abbandoni dei figli dei fiori e riecheggiava nelle loro canzoni. Quarant'anni dopo, agli inizi del
terzo millennio, le manifestazioni festive appaiono snaturate da quell'originario significato di comunanza, caos primordiale e amore universale. Nell'era moderna la festa è trasformata in mero
prodotto di consumo e di spettacolo gestito a fini commerciali e politici. Ha scritto Pedro Gómez Garcìa nel saggio Ipotesi sulla Struttura e la Funzione delle Feste:
Se le feste finiranno per tradurre soltanto le ideologie del denaro e del potere di
multinazionali, se l'impersonale soppianterà il dialettale, se l'abilità personale sarà supplita completamente da quella degli specialisti, se l'eteronomia apparirà una caratteristica
ineluttabile, se la sofisticazione prenderà il posto dell'autenticità, allora non vi sarà più se non un simulacro di festa, e certamente non vi sarà più se non un simulacro di paese: uno
spettacolo doppiamente triste.
Nell'attuale società di consumismo furioso, egoismo e spaventosa vacuità spirituale - una società in cui è in vertiginoso
aumento il consumo di cocaina, droga dell'azione e della sfrenatezza - la festa viene fagocitata dalle grandi élite del potere, passa fra i suoi ingranaggi ed è restituita in forma
"standardizzata", tale da produrre "ritualità in serie", moderni cerimoniali sponsorizzati dalla multinazionale di turno, platee di uomini "programmati", come quelle profetizzate da Aldous Huxley
ne Il Mondo Nuovo. Qui la società ha un'organizzazione di tipo "alveare", grazie ai progressi dell'ingegneria genetica il governo è in grado di calcolare quanti e quali cittadini siano
di volta in volta necessari affinchè lo stato proceda nel «migliore dei modi». Già prima della nascita, a cia-scun individuo viene assegnato un preciso e limitato compito sociale: operaio,
medico, aviatore e via dicendo, e le persone nasceranno in classi nettamente condizionate e differenziate tra loro. Questi futuri cittadini saranno dunque felici:
Il segreto della felicità e della virtù è questo: amare ciò che si deve amare. Ogni
condizionamento mira a far sì che la gente desideri la sua inevitabile destinazione sociale.
Lo psicanalista Cari Gustav Jung dipinge uno scenario altrettanto inquietante:
Siamo precipitati nella fiumana di un progresso che ci proietta verso il futuro con una
violenza tanto maggiore quanto più ci strappa dalle nostre radici. Ma se si apre una breccia nel passato esso per lo più crolla, e non c'è più nulla che trattenga. Ma è proprio la perdita di
questo legame, la mancanza di ogni radice, che genera tale «disagio della civiltà» e tale fretta che si finisce per vivere più nel futuro e nelle sue chimeriche promesse di un'età dell'oro che
nel presente, a cui del resto la nostra intima evoluzione storica non è neppure ancor arrivata. Ci precipitiamo sfrenatamente verso il nuovo, spinti da un crescente senso di insufficienza, di
insoddisfazione, di irrequietezza. Non viviamo più di ciò che possediamo, ma di promesse, non viviamo più nella luce del presente, ma nell'oscurità del futuro, in cui attendiamo la vera aurora.
Ci rifiutiamo di riconoscere che il meglio si può ottenere solo a prezzo del peggio. La speranza di una libertà più grande è distrutta dalla crescente schiavitù allo stato, per non parlare degli
spaventosi pericoli ai quali ci espongono le più brillanti scoperte della scienza. Quanto meno capiamo che cosa cercavano i nostri padri e i nostri antenati, tanto meno capiamo noi stessi, e ci
adoperiamo con tutte le nostre forze per privare sempre più l'individuo delle sue radici e dei suoi istinti, così che diventa una particella della massa, e segue solo ciò che Nietzsche chiama lo
«spirito di gravita». I miglioramenti che si realizzano col progresso, e cioè con i nuovi metodi e dispositivi, hanno una forza di persuasione immediata, ma col tempo si rivelano di dubbio esito
e in ogni caso sono pagati a caro prezzo. In nessun modo contribuiscono ad accrescere l'appagamento, la contentezza o la felicità dell'umanità nel suo insieme. Per lo più sono addolcimenti
fallaci dell'esistenza, come le comunicazioni più veloci che accelerano il ritmo della vita e ci lasciano con meno tempo a disposizione di quanto non ne avessimo prima.
Ai giorni nostri i rituali pagani (come il tarantismo), in cui l'individuo liberava i suoi impulsi inconsci in un
delirante fondersi con le armonie ancestrali della natura, si disgregano sotto i colpi brutali della società tecnologizzata, fino ad estinguersi. La festa tradizionale viene strappata dal suo
contesto, viene smembrata e travolta dallo spettacolare, dal sensazionale, dal morboso, e poi ricostruita con un'abile sceneggiatura. Ne scaturiscono gli idoli della modernità: commemorazioni
pubbliche, campionati mondiali, grandi concerti, festival, eventi fastosi con pubblici televisivi inauditi, composti da migliaia di individui smarriti nella loro agghiacciante solitudine. La
tecnologia ci offre nuovi svaghi, nuovi stimoli, nuove distrazioni, le grandi aziende ci regalano emozioni, sollazzi per la mente, colmano vuoti intcriori, elargiscono passioni.
I Signori ci placano con immagini. Ci donano libri, concerti, gallerie, spettacoli,
cinema. Soprattutto i cinema. Attraverso l'arte ci confondono e ci accecano nel nostro asservimenlo. L'arte adorna le mura della nostra prigione, ci rende quieti e divertiti e
indifferenti.
Questi versi chiudono la raccolta di poesie I Signori. Appunti sulla Visione. Jim Morrison dipinge una società organizzata in modo tale da rendere gli individui sempre più passivi e innocui, una società dove perfino l'arte, paradossalmente, diventa strumento utile per addomesticare e soggiogare le coscienze, e dove le persone sono ormai ridotte a semplici prodotti di una ingegneria culturale di massa.
(tratto da Wake up! I numi tutelari di Jim
Morrison
MEF Firenze Libri, 2010)
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